Articolo tratto da L’Unità, 04 luglio 1984. L’autore è Giuseppe Petronio.
Il “processo alla regina”, cioè ad Agatha Christie, tenutosi a Cattolica i giorni scorsi, è stato, nella forma, un gioco: un gioco di società per intellettuali, con un giudice, la pubblica accusa, la difesa, i testimoni a carico e a discarico, i periti. Un gioco che poteva essere divertente, ma in cui pareva essere implicito il rischio di una mondanità tutta epidermica, da salotto “intellettuale” d’estate.
Invece, è stato assai più, ed è diventato un dibattito che dalla Christie si è allargato a discutere del “giallo”, di questi generi che non si sanno come chiamare e che perciò si chiamano in cento modi, della letteratura e della critica. E gran parte del merito va agli organizzatori, che avevano coinvolto nel “processo” persone di tutte le professioni e le arti, diversissime per temperamento e cultura. Presidente era chi scrive questa nota; per pubblico accusatore Renée Reggiani, avvocato difensore Rosellina Balbi, cancelliere Giorgio Gosetti; tra i testimoni e i periti c’erano critici (Guido Almansi, Alfredo Giuliani, James Barnett), rappresentanti di case editrici (Gian Franco Orsi, Lia Volpatti), scrittori (Corrado Augias, Christianna Brand), esperti della televisione e del cinema (Christ Steinbrunner, Claudio Fava), giornalisti televisivi (Vieri Razzini, Alvise Sapori), biografi della scrittrice, persone che l’hanno conosciuta. E c’era quell’Oreste Del Buono il cui nome è tutt’uno con la storia del “giallo” in Italia. E già questo impianto è interessante, perché mi pare che configuri il profilo dei convegni o congressi a venire, in questa età dei mezzi di comunicazione di massa: un incontro e incrocio di esperienze diverse, una collaborazione di tutti gli strumenti possibili, un intrecciarsi di ricerca e di informazione, e dunque uno sfaccettamento del tema per esaminarlo da tutti i punti di vista.
Animato da tante voci diverse il dibattito pareva, qualche momento, disperdersi, ma non è stato difficile ricondurre interventi e battute ad alcuni temi centrali. E così, nelle due sedute, si sono sentite ribadire le accuse e le difese che si ripetono da decenni su questi temi in generale, sulla Christie in particolare. Per comodità, le raggrupperò, come in un bilancio, su due colonne.
Accusa: i libri della Christie e di tanti altri giallisti non sono realistici; i cadaveri non sanguinano, non puzzano, non fanno impressione, manca il brivido.
Difesa: ma perché dovrebbero far rabbrividire, perché dovrebbero essere realistici, offrire atmosfere e caratteri, se essi sono stati (da Conan Doyle a tutti gli anni Venti) un gioco intellettuale, una partita a scacchi, in cui il criminale sfida l’acume dell’indagatore, e lo scrittore quello del lettore?
Accusa: la Christie scrive male, non ha “stile”, altera la storia e la geografia, crea una società di maniera che non esiste e che forse non è esistita mai.
Difesa: e perché, in libri che non sono né vogliono essere realistici, non si potrebbe alterare, qualche volta, la storia e la geografia? Non lo faceva anche Shakespeare? E se la sua è una maniera, non lo è anche di quel Simenon e Chandler che alcuni le opponevano polemicamente? E che cosa significa “avere uno stile”, “scrivere bene o male”? E non è vero che il suo stile è funzionale al suo modo di raccontare e al suo mondo? Non è vero (vi hanno insistito soprattutto Robert Barnard e Christianna Brand: due inglesi e scrittori, per giunta!) che quella scrittura è tutt’uno con quel raccontare? E non c’è in quei libri (lo ha osservato con finezza Corrado Augias) un profumo di vecchia Inghilterra, di Old England, di una Inghilterra vittoriana che non vuole morire?
Accusa: ha mille difetti.
Difesa: ha milioni di lettori; ventiquattromilioni di volumi venduti in Italia, centinaia di milioni nel mondo.
Accusa: non è letteratura.
Difesa: ma che cos’è la letteratura?
Ed eccoci così al dunque, al nocciolo della questione, al punto obbligato in cui si arriva sempre, da anni, ogni volta che dibattiamo di queste cose. Da una parte una concezione della letteratura non dirò limitata, ma certo snobistica, pseudo aristocratica (pseudo, perché non è più l’espressione di una reale aristocrazia, come era una volta), che giudica e assolve o condanna (più spesso condanna!) in nome di alcuni elementi o valori che essa promuove a soli valori assoluti; dall’altra, una concezione che si sforza di cogliere tutti i valori, quali e dovunque essi siano, e che, soprattutto, piuttosto che assolvere o condannare, vuole capire.
Sono più di cento anni che il “giallo” esiste, ed è un fenomeno di massa, e ha entusiasmato ed entusiasma milioni, centinaia di milioni di uomini di tutti i paesi, e ha dato libri adattati in riduzioni cinematografiche e televisive di alto valore. E ha dato all’immaginario collettivo, di noi tutti, personaggi (Sherlock Holmes, Poirot, Miss Marple, Maigret, Marlowe) che sono vivi nelle fantasie e nei ricordi come quelli degli scrittori più grandi o diffusi (Amleto, Otello, Pinocchio) o dei più grandi registi (Charlot). Si possono condannare quei libri solo perché – è stato detto – “io non riesco a leggerli”, perché la loro prosa è lutulenta, la loro scrittura goffa, perché la Christie, nel caso specifico, non ha una poetica, è non una “scrittrice” ma una “scrivente”? Cioè, traduciamo, perché non è di quegli scrittori per i quali scrivere significa innovare, o tentare di innovare, stilisticamente?
A battersi in questa ridotta erano, soprattutto, Guido Almansi e Alfredo Giuliani; dalla parte opposta, un po’ tutti; specialmente, a gradi diversi di consapevolezza teorica e di precisione espressiva, Oreste Del Buono, Robert Barnard, Rosellina Balbi, Corrado Augias, il sottoscritto. E anche qui, per brevità e comodità, raccolgo e schematizzo le tesi. Il “giallo”, il fenomeno del “giallo”, non va accettato o respinto in nome di gusti personali (“non riesco a leggerlo”, “mi diverte”) o di una concezione preconcetta dello “stile” e della “letteratura”. È un fenomeno sociale e letterario (è narrazione, racconto, invenzione, dunque è letteratura), ma va studiato e analizzato, con un pizzico, anche, di umiltà: se qualcosa non piace a me, ma piace a milioni di persone, vorrò avere il sospetto, almeno il sospetto, che sono io a sbagliare?
Il “giallo” – seconda tesi – astrattamente non esiste. Esistono i “gialli”. Cioè, il “giallo” è un genere letterario, con una sua storia ormai centenaria, con tante correnti (e dunque poetiche!) al suo interno, con uno svolgimento che accompagna a capello lo svolgimento di tutta la letteratura occidentale dal 1850 a oggi, e quindi, di tutta la nostra società occidentale. E paragonare la Christie a Simenon è tanto assurdo quanto paragonare Zola a Proust, Verga a Svevo: sono due mondi, e non solo letterari.
La letterarietà del “giallo” (terza tesi) non va riportata, allora, a un’astratta letterarietà, elaborata da questa o quella scuola di critica, ma alle sue motivazioni interne, diverse di fase in fase, alle sue ragioni di poetica, agli effetti che voleva, di volta in volta, raggiungere.
Il che significa poi (quarta tesi) che infiniti “gialli” sono rozzi, volgari, ripetitivi, non problematici, ecc… ecc…, come in tutte le migliori famiglie, come anche nei generi “alti”. E ce ne sono altri invece (ma per trovarli bisogna leggerli!) seri, interessanti, vivi, problematici, ecc… ecc… come in tutti gli altri generi.
“Elementare, Watson, elementare”, diceva Sherlock Holmes. O no?