Agatha Christie Akhenaton

Il presente articolo è tratto dal quotidiano La Stampa, 13 febbraio 1980. L’autrice è Gaia Servadio.

AkhenatonNotte buia di pioggia fredda a Londra; davanti al Teatro Fountain Abbey, misteriosamente, non c’è una segnalazione che possa illuminare il passante perduto. Si entra in un oscuro corridoio, su per scale misteriose: ed eccoci finalmente nella cornice perfetta per la prima mondiale di una pièce che Agatha Christie scrisse nel 1937 e pubblicò solo nel 1973.

Una novità in tutti i sensi perché, anche se un paio di avvelenamenti giustificano l’interesse della famosa scrittrice di gialli a un soggetto a lei tanto alieno, in questo testo non ci sono misteri da svelare. Anzi. La storia del faraone monoteista del XIII secolo a.C. è portata avanti il più fedelmente possibile per quanto si sapeva dello stravagante e geniale faraone Akhenaton nel 1937, ed allora se ne sapeva ancora meno di oggi.

Recentemente l’interesse per il periodo Amarniano è cresciuto anche per recenti “rivelazioni” archeologiche. Il testo di Agatha Christie è disseminato da educate allusioni all’omosessualità di Akhenaton, allora supposta ed oggi più o meno storicamente stabilita. E sul palcoscenico prende carne questo straordinario faraone che anticipò il monoteismo con il suo messaggio di pace e amore, con la sua “fissazione” di essere il figlio di Aton, dio unico, dio del sole, dio del bene.

Agatha Christie si invaghì del meraviglioso Akhenaton in uno dei suoi molti viaggi in Egitto, viaggi che faceva con il secondo marito, l’archeologo ed egittologo Max Mallowan. Erano andati ad Amarna, la capitale fondata dal faraone che si era allontanato da Tebe. Come è noto era Akhenaton l’autore del bellissimo cantico dei cantici della Bibbia, e Sir Max fu uno degli egittologi che trascrisse i brani rimasti nelle famose grotte sopra ad Amarna.

Agatha Christie non voleva che questo suo testo fosse messo in scena: era lunghissimo ed ha pretese letterarie e filosofiche: in questo allestimento è stato ridotto a due ore e le centinaia di attori sono diventati sette.

In scena Akhenaton (Anthony Homyer) non è la bella creatura allampanata dalle labbra carnose che conosciamo ma un Cristo dai capelli lunghi e neri che porta vestiti pochissimo regali. Anche sua moglie Nefertiti (Jane Holstead) è un po’ donna di casa, benché si muova come un geroglifico egizio. Gli è fedele, poveretta, nonostante l’amore che il regal consorte prova per il capitano Horemheb (Andrew King). La cattiva – traditrice – avvelenatrice è la sorella di Nefertiti, Nezecemut (Nicola Walker); il perfido sacerdote di Aton (Robin Forster) è l’attore più credibile, con un cranio alla Yul Brinner e un trucco da terracotta del medio impero.

AkhenatonNaturalmente sulla scena abbiamo anche il giovane Tutankhamon (Ricardo Pinto), genero di Akhenaton (ma dove sono le figlie?) ben contento di tradire il suocero per prendere il suo posto. Ma il sacerdote di Aton ci fa capire che, dopo aver servito al suo scopo, Tutankhamon verrà avvelenato. Horemheb sarà un migliore faraone per difendere l’Egitto e sopprimere le rivolte.

Un racconto tanto affascinante come quello del faraone che diede vita a una scuola di pittura e di scultura che oggi potremmo definire manierista non può annoiare. La regia di James Gillhouley è eccessivamente scarna e i costumi che avrebbero dovuto rievocare una particolare atmosfera e sottolineare la scuola di Amarna, un po’ troppo “fatti in casa”.

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